Maria insegna italiano in una scuola serale di Napoli, legge Dante e Leopardi a giganteschi camionisti che faticano a infilarsi nei banchi.
Una sera, tornando a casa, un dolore rotondo e forte la precipita nella sala d’aspetto di un ospedale: «Quelli sono medici, signò, che vi possono rispondere?»
Narrata con una voce ribelle che pure sa trovare i toni dell’indulgenza, una storia che inizia come un destino di solitudine personale e piano piano si trasforma in un caldo coro di scoperte, volti, incontri. Tanto che a Maria sembra quasi che siano la vita e la città a farle da compagne.
Un libro bruciante, profondo e luminoso.
Succede a volte che un imprevisto interrompa il corso normale della vita: un accidente si mette di traverso, e d’un tratto il tempo si biforca. Alla drammatica rapidità dell’istante si affianca un tempo diverso, dilatato e fermo: il tempo dell’attesa. «Io non sono buona ad aspettare, – dice Maria, la protagonista di questo romanzo. – Non sento curiosità nel dubbio, né fascino nella speranza. Aspettare senza sapere è stata la più grande incapacità della mia vita».
Eppure non può fare altro, perché sua figlia Irene è arrivata troppo presto: dietro l’oblò dell’incubatrice, Maria osserva le ore passare come una sequenza di possibilità. Niente è più come prima, la circonda un mondo strano fatto di medici e infermieri, donne accoltellate, attese insensate sui divanetti della sala d’aspetto. Nei giorni si susseguono le sigarette dalla finestrella dell’ospedale, le mense con gli studenti di medicina, il dialogo muto coi macchinari, e soprattutto il suo lavoro: una scuola serale dove un’umanità deragliata fatica sui Promessi Sposi per conquistarsi la terza media fuori tempo massimo.
Nessun commento:
Posta un commento